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Pasta al glifosato

Il problema più grande è la perdita del valore simbolico dei cibi. Sono diventati commodities, beni di consumo senza anima.
Carlo Petrini

Occhio all'Etichetta - Lucia Cuffaro & Elena Tioli

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Un’inchiesta che svela il “lato B” dei prodotti che mettiamo nel carrello, una pratica guida al consumo critico, una lettura semplice e divertente per imparare a leggere le etichette e a riconoscere ciò che ci fa male.
Cibo, bevande, prodotti per l’igiene della persona, per la cura della casa e del giardino, vestiti e articoli per bambini. Al suo interno troverete informazioni, approfondimenti e trucchi per sopravvivere tra le corsie dei supermercati e scegliere le alternative più sane ed etiche.
Butta la pasta!

Siamo i primi mangiatori di pasta al mondo: ogni anno ne consumiamo circa 27 kg a testa contro una media europea di soli 6 kg. Piatto tipico per eccellenza, possiamo cucinarla in tantissimi modi diversi: tempi di cottura, sughi e condimenti per noi non hanno segreti, ma in realtà conosciamo ben poco di quello che stiamo mangiando. Acqua e farina di grano duro, penserete. Molto probabilmente, anche molto altro.

C’è stato un tempo in cui (addirittura) una legge stabiliva il contenuto del nostro spaghetto: era la n. 580 del 1967 e affermava che, per preservare la nostra tradizione, si considerava pasta esclusivamente il risultato della trafilazione, laminazione ed essiccamento di un impasto preparato con semola di grano duro e acqua, senza l’aggiunta di additivi o altre sostanze.

Essendo presenti solo questi due ingredienti la questione era semplice: la qualità del prodotto dipendeva esclusivamente dalla qualità della materia prima (il grano) e dell’abilità del produttore.

Oggi, anche se in molti non lo sanno, la faccenda è un po’ diversa. Non solo perché l’antica arte del fare la pasta ha subito gli innumerevoli stravolgimenti dell’industrializzazione, ma, anche e soprattutto, perché dal 2001 è stata autorizzata la commercializzazione di pasta ottenuta da grano tenero o misto.

A causa di un Decreto del Presidente della Repubblica oggi gli scaffali dei nostri supermercati sono invasi da tanti pacchi di pasta di pessima qualità, che difficilmente mantengono la cottura e dalle caratteristiche organolettiche decisamente inferiori.

Occhio all’etichetta, quindi! In questo caso, più che mai, meglio restare fedeli alla tradizione.

Made in?

Pasta italiana… Pasta di Gragnano… Prodotta nello storico pastificio di Napoli… se ci si fermasse alla confezione “lato A” non ci sarebbero dubbi: la nostra pasta è il fiore all’occhiello del Made in Italy. In realtà così non è. Perché sebbene la produzione sia nostrana, la maggior parte della materia prima con cui è fatta arriva da molto lontano.

E difficile crederlo ma almeno il 50% del grano duro necessario al nostro fabbisogno oggi è importato. E non si tratta affatto di grano comprato per sfamare la popolazione: come italiani potremmo vivere tranquillamente con ciò che coltiviamo. Ad aver bisogno di molta materia prima è l’industria alimentare e la sua fame di export della cosiddetta “pasta italiana”.

Pasta

Un dettaglio non da poco, visto che si parla di oltre 2,3 milioni di tonnellate di grano duro all’anno, di cui fino a pochi mesi fa non si conosceva la provenienza.

Oggi le cose sono un po’ cambiate. Da febbraio 2018, infatti, le etichette della pasta devono indicare, per legge, l’origine della materia prima. In questo modo i consumatori possono individuare quali sono le marche che utilizzano grano duro coltivato nel nostro paese e non farsi ingannare dai tanti specchietti per le allodole (in genere verdi, bianchi e rossi) presenti sulle confezioni.

Per scoprire l’inganno, ancora una volta dobbiamo dare una sbirciatina al “lato B” della nostra confezione. Qui, grazie al decreto legge varato il 26 luglio 20172 sulle nuove etichette, troveremo specificato se la pasta che stiamo per acquistare contiene grano proveniente da Paesi europei o extra europei.

Attenzione quindi alle scritte come “Paese di coltivazione del grano UE“, “Paese di coltivazione del grano Extra UE“, “Paese di coltivazione del grano UE ed extra UE” oppure “Italia e altri Paesi UE e/o non UE” (utilizzata nel caso in cui il grano duro sia coltivato almeno per il 50% in Italia). Queste diciture un po’ generiche ci dicono molto più di quello che affermano.

Per esempio, quando l’etichetta riporta la dicitura “Paese di coltivazione Extra UE”, molto probabilmente si tratta del Canada, il granaio del mondo. Qui, precisamente tra Manitoba e Alberta, ci sono oltre 1500 chilometri di praterie dove si coltiva solo grano che, in media per l’80%, viene esportato. I principali importatori sono Italia e Paesi del Nord Africa (Algeria, Tunisia, Marocco).

O, per meglio dire, erano. Perché l’Italia recentemente ha fatto un deciso dietro front. Se fino al 2017 un pacco di pasta su cinque prodotto nello Stivale era ottenuto da grano canadese (nel 2017 ne abbiamo importati 720 milioni di chili), oggi le cose sono diverse.

A innescare la molla del cambiamento è stata non solo l’etichettatura, ma l’informazione sempre più approfondita e martellante sul tema “glifosato”.

Pasta al glifosato

L’erbicida targato Monsanto più usato al mondo, in Canada viene abbondantemente utilizzato nella fase di pre-raccolta per seccare il grano e limitare la formazione di funghi dovuti all’umidità. Questa modalità in Italia è vietata per legge dal 2016, dopo che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro nel 2015 aveva inserito il glifosato nell’elenco delle sostanze “probabilmente cancerogene per l’uomo“.

Insomma, i consumatori, ancora una volta, hanno fatto la differenza. Non solo causando il crollo dell’import, ma favorendo la rapida proliferazione di marchi che garantiscono l’origine nazionale al 100% del grano impiegato. Una vittoria non da poco. Non solo per chi mangia la pasta, ma anche per chi la produce. Basti pensare che, secondo Coldiretti, se tutte le aziende smettessero di rifornirsi di grano canadese si creerebbero da subito oltre 20mila posti di lavoro, magari dignitosamente retribuiti. Mica bruscolini, insomma!

Nobile trafilatura

Un’altra dicitura che a volte compare sulle confezioni è “Trafilatura in bronzo“. Per trafilatura s’intende il tipo di lavorazione dell’impasto tramite, appunto, la trafila, un utensile che determina la forma e la rugosità. Qualcuno di certo si ricorderà della Nonna Papera che fino a poco tempo fa regnava in tutte le cucine degli italiani. Bene, il procedimento è lo stesso, solo più in grande: l’impasto viene incanalato e spinto contro fori sagomati a seconda del formato desiderato.

Tradizionalmente le trafile erano tutte in bronzo, oggi invece molte aziende le hanno sostituite con quelle in acciaio o teflon. I risultati non sono gli stessi: la pasta trafilata al bronzo presenta una superficie porosa più adatta a trattenere il condimento, mentre le altre hanno un aspetto più liscio e trattengono meno il sugo.

A volte capita di imbattersi anche in “Trafilatura in oro“. In questo caso abbiamo a che fare con una pasta più pregiata, in quanto il metallo nobile permetterebbe all’impasto di subire minore stress.

Kamut del Faraone? No, grazie

A quanto pare la scritta “Kamut” per l’italiano al supermercato è un vero e proprio canto di sirena. Siamo i più grandi compratori europei di questo grano, secondi solo alla Germania. Attratti dall’illusione di mangiare prodotti più salutari, digeribili e nutrienti, per acquistare un pacco di pasta al Kamut siamo disposti a spendere anche cinque volte di più rispetto a una pasta di semola di grano duro. Ma cosa stiamo pagando davvero? Per lo più, un marchio.

Il Kamut non è, infatti, una specie di grano antico, bensì il nome commerciale che l’azienda americana Kamut International Ltd ha dato al Khorasan, un tipo di frumento originario della fascia compresa tra l’Anatolia e l’Altopiano iranico, oggi coltivato anche in molte zone del nostro Sud Italia. Proprio così. Lo potremmo avere in casa a prezzi popolari, ma lo acquistiamo da oltre oceano a prezzi stratosferici.

Kamut - Pasta al glifosato

Il motivo è presto detto: il Kamut viene coltivato esclusivamente in Canada e Stati Uniti (Montana) in regime di monopolio dalla famiglia Quinn.

La produzione (intensiva) è biologica, ma non è questo a motivarne il prezzo. A fare la fortuna di questo grano è stato il marketing decisamente spinto ed efficace che ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda della sua origine in un’antica tomba di un faraone egizio; l’attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali; una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine.

Tutte affermazioni tanto ben infìocchettate quanto illusorie.

Basta confrontare la tabella dei valori nutrizionali del Kamut con un altro pacco di pasta (magari di Khorasan) per vedere che di diverso c’è ben poco. Per quel che riguarda la possibilità di mangiarlo per chi soffre di intolleranze al glutine invece, fin da subito, è arrivata la smentita.

Ciò che resta di vero è un monopolio commerciale, un costo eccessivo del prodotto finito, una pesantissima impronta ecologica legata allo spostamento e al trasporto, nonché una presa in giro per i nostri agricoltori locali, che coltivano grani antichi nostrani.

Gluten free

Un’altra parolina magica è “gluten free“. Il mercato del senza glutine è cresciuto del 20% all’anno e ormai tocca il 10% degli italiani, facendo muovere cifre superiori ai 320 milioni di euro annui (Coldiretti, 2018). Numeri talmente rilevanti da far sì che pasta e biscotti senza glutine, dal 2015, siano presenti a pieno titolo nel paniere Istat per il calcolo dell’inflazione.

Come si spiegano questi dati è presto detto. Non di soli celiaci vive il mercato del senza glutine. Anzi. Le persone affette da celiachia sono in realtà la minima parte di chi sceglie di cibarsi gluten free. Per ogni italiano che soffre di celiachia certificata, infatti, ce ne sono addirittura 30 che consumano alimenti privi di glutine senza averne bisogno.

Perché quella parolina è così attraente per il popolo più pastasciuttaio del mondo? Semplice: complice una cattiva informazione (e molto probabilmente una cattiva pasta), in molti oggi credono che eliminare il glutine faccia bene alla salute (oppure dimagrire).

Ma non è così. Anzi. Molto spesso questi prodotti hanno un indice glicemico superiore rispetto alla pasta. Dettaglio non di poco conto quando si vuole perder peso! Chiarito ciò, se siamo costretti o se proprio vogliamo evitare per vocazione il temibile glutine, scegliamo sempre con consapevolezza, perché non tutti i prodotti gluten free sono uguali.

Per esempio, in etichetta possiamo trovare scritto: “amido di frumento deglutinato“. In questo caso, abbiamo a che fare con grano che ha subito una particolare lavorazione per separare l’amido dalla frazione proteica attraverso un processo di lavaggio e asciugatura. Un procedimento che elimina, sì, la parte proteica del frumento (e quindi dannosa per il celiaco), ma che, al contempo, rende l’amido deglutinato composto esclusivamente da carboidrati, e quindi di scarso valore nutrizionale.

Altro discorso vale per la “farina deglutinata” ottenuta tramite un processo coperto da brevetto che parte dalla lievitazione naturale per cui, tramite una combinazione di enzimi e fermenti lattici e un prolungato tempo di riposo, viene eliminato il glutine dalla farina di frumento, mantenendo tuttavia invariate le caratteristiche nutrizionali dello stesso.

La scelta migliore resta sempre e comunque quella di prediligere alimenti di per sé privi di glutine. Ormai le paste prodotte con materie prime naturalmente free sono numerose: riso, mais, legumi, grano saraceno… e chi più ne ha più ne metta.

Senza dimenticare che, per chi non soffre di celiachia, il grano antico è sempre una buona e sana scelta.

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